lunedì 30 marzo 2020

CORRERE LA MONTAGNA – SOLO SPORT O C’E’ DI PIU’?



No. Non è un errore di sintassi ma il titolo di un convegno che si tenne a Cavour a cura della locale società di Atletica nel 1988. Relatori il Dott. Paolo Lapi, per la parte medico – sanitaria, il compianto Raimondo Balicco per la parte tecnica e l’avvocato Bruno Gozzelino per la parte legale. Erano gli anni nei quali la vecchia, semisconosciuta e cara Marcia Alpina, di derivazione in parte militare, stava prendendo piede consolidando una passione che avrebbe portato decine di migliaia di sportivi a misurarsi con la disciplina. E l’Atletica Cavour, associazione sportiva lungimirante, aveva allestito il convegno per dare solidità al nascente movimento sportivo.

Correre la montagna ha, da sempre, rappresentato un gesto sospeso a metà tra l’ascetismo filosofico e lo sport. Qualcuno ha anche indagato, dal punto di vista psicoanalitico, sulla necessità dell’umano di dovere salire sempre più in “su” per ricercare il “sé” (In su ed in sé – Giuseppe Saglio e Cinzia Zola – Ed. Priuli e Verlucca).

L’ evoluzione della partecipazione quantitativa a questa disciplina ha fatto riemergere latenti confronti e finanche polemiche sul modo migliore ed esclusivo di vivere l’ambiente montano. Partendo dalle proprie convizioni ognuno ritiene che il proprio “modo” sia quello giusto disquisendo, non sempre a proposito, con opinioni diverse.

Nella mia attività di organizzatore di Corse in Montagna, variamente denominate, mi sono imbattuto sovente in discussioni di questo tipo in particolare all’interno della “montagna organizzata” ovvero, il Cai e/o l’Uget. E dire che tutto ebbe inizio (per me) nell’agosto 1972 quando la sezione Cai – Uget della Val Pellice organizzò, con il supporto degli Alpini della Taurinense, la Tre Rifugi in alta Val Pellice: gara di Marcia Alpina a cronometro per coppie di atleti. Ma non fu l’unica: il Cai Saluzzo allestì il Giro del Monviso, il Cai Coazze la corsa ai Picchi del Pagliaio per ricordare due soci periti colà ma l’elenco potrebbe continuare. In allora la disciplina non era ricondotta sotto alcuna Federazione in quanto sport povero e, soprattutto non olimpico.

Quello che viene “contestato” da parte dei “puristi” è l’aspetto agonistico di queste manifestazioni. La cosa mi lascia perplesso: da anni sono tesserato Cai – Uget (diciamo 25) e sulle riviste del sodalizio, specie la rivista nazionale, leggo sovente servizi che “esaltano” questo o quell’alpinista per avere raggiunto tante vette in poco tempo…oppure avere superato difficoltà mai superate prima. Le “prime” e la rincorsa ad effettuarle sono considerate importanti traguardi nell’evoluzione dell’alpinismo. Faccio una semplice domanda: non può essere considerato agonismo anche tutto questo?

Altri ritengono che la montagna vada vissuta lentamente per avere la possibilità di goderne appieno il panorama, la natura e l’ambiente circostante. Un modo indubbiamente corretto che è sovente praticato anche dagli amanti della Corsa in Montagna. Quello che mi lascia perplesso è la considerazione (a volte imposizione) che debba essere l’unico modo praticabile tacciando i profanatori della camminata lenta di eresia.

“Correre la Montagna” talvolta è semplice agonismo, quello che impedisce di guardare altro che il cronometro e la punta delle proprie scarpe ma può essere, ed è, molto di più! La corsa o, dove non possibile, la marcia sui sentieri montani rappresenta, per molti, un vero e proprio incontro con se stessi nella natura. Un terreno fertile per la mente per correre anch’essa ai limiti dell’ascetismo. L’incontro con un “benessere” che trae forza proprio perché praticato in ambiente selvaggio, in piena armonia con la natura e sovente in solitaria proprio come l’alpinista.

Quali fondamenti hanno, allora, le polemiche talvolta latenti e talvolta evidenti? Un modo non esclude l’altro anzi, a me pare che sui sentieri ci possa stare il camminatore, il contemplatore, l’agonista e l’asceta nel pieno rispetto reciproco e magari, talvolta, a ruoli invertiti.

Un ultimo aspetto molto più materialistico: l’affermarsi delle corse in montagna nelle loro più svariate declinazioni, ha permesso a migliaia di persone, specie provenienti dalle città, di conoscere le nostre montagne e dopo una “competizione non competitiva” magari farne ritorno con la famiglia per rivivere, a passo lento, l’ambiente che li ha ospitati. Ricordo che nel 2013, anno dell’allestimento della prima edizione del Tour Monviso Trail, quando qualche “forestiero” chiedeva informazioni sul tracciato alla domanda “Conosci l’area del Monviso?” molti rispondevano di no! In otto anni avere portato 4.000 “foresti” a conoscere le nostre montagne rappresenta una promozione formidabile per le nostre montagne e l’economia che permette la vita dei montanari.

Questione complessa che diventa facile se ognuno di noi pratica non la tolleranza ma il rispetto per l’amore della montagna che è, secondo me, poligamo!
Carlo Degiovanni